Archivio mensile:Gennaio 2019

May, sconfitta devastante. Ma non c’è alternativa alla premier

«There is no alternative», «non c’è alternativa», era uno dei mantra più famosi di Margaret Thatcher, la «lady di ferro» che ha cambiato la Gran Bretagna in modo radicale. Questo mantra era tanto famoso da diventare un acronimo: «TINA». Era la parola finale della Thatcher quando si trattava di stroncare la resistenza dei minatori o se si trattava di sedare le rivolte all’interno del suo rissosissimo partito.

E anche ora – purtroppo – a Londra non ci sono alternative a Theresa May, nonostante la devastante sconfitta a Westminster sull’accordo sulla Brexit: 230 voti di scarto con mezzo partito conservatore che l’ha abbandonata come un cane ad agosto in tangenziale.

Oggi, infatti, con tutta probabilità la mozione di sfiducia presentata dai laburisti verrà bocciata dalla stessa maggioranza che si è sfarinata quando si è trattato di votare a favore di un accordo non perfetto, ma che comunque risolveva il nodo Brexit in modo non troppo pesante. Il fatto è che nessuno ha idea di come uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciata la Gran Bretagna con il referendum. E allora si manda avanti il caporale May che assomiglia sempre più a un fante mandato al massacro sul fronte della Somme. Difficile che, ormai ridotta a uno zombie politico, ottenga qualcosa di più da Bruxelles. intanto il fantasma del «no deal» è sempre più reale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 16 gennaio

Brexit: Londra è (in)decisa a tutto

«Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente». Molti a Londra in questi giorni vorrebbero avere l’ottimismo – o il giudizio accecato dall’ideologia, a volte le due cose si equivalgono – di Mao Zedong, l’autore della celebre massima.

Infatti la confusione – a pochi giorni dal voto sull’accorto trovato dalla premier Theresa May con la Ue, previsto per martedì prossimo – è grande. Anzi enorme. È, infatti, altamente probabile che l’accordo venga bocciato dal Parlamento, visto che non ha convinto nemmeno i conservatori, il partito della May che è diviso – come tutto il Paese – tra fautori della Brexit e invece chi preferirebbe rimanere nell’Unione europea.  Eppure la quasi certezza della bocciatura del piano che potrebbe portare a una disastrosa uscita del Regno Unito dalla Ue senza alcun accordo, pare aver stregato l’intera classe politica bloccata e immobile. Pietrificata dallo sguardo di Medusa. 

C’è chi preferisce un accordo con meno vincoli, c’è chi vuole un patto ancora più stringente, c’è chi chiede più tempo e un secondo negoziato, c’è chi punta a un secondo referendum che annulli il primo e chi, invece, spera nelle elezioni anticipate. Ma nessuno sembra prendere sul serio l’ipotesi di un «no deal», del mancato accordo, che a ogni ora che passa, sembra sempre più spaventosamente reale. Con la recessione mondiale che, secondo tutti gli studi, potrebbe innescare.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 12 gennaio 2019

Il controeditto bulgaro

Correva l’anno 2002 quando l’allora premier, Silvio Berlusconi, da Sofia, chiese alla Rai la testa di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi per il delitto di «uso criminoso della tv». Era il famoso «editto bulgaro». Allora la televisione era il duopolio Rai-Mediaset. Il satellite era di nicchia, internet non esisteva. Carlo Freccero era il talentuoso direttore di Rai2 e Luttazzi era un comico emergente. Sia Freccero che Luttazzi furono epurati.

Freccero lasciò il posto ad Antonio Marano, in quota Lega. Ora Freccero è tornato a dirigere Rai2, grazie a un governo in cui la Lega è parte integrante. La tv è cambiata, i canali sono esplosi, c’è internet e Rai e Mediaset non sono più gli unici gorilla nella foresta. Ma Freccero riparte da Luttazzi, come se fosse il 2002. E toglie spazio a Luca (Bizzarri) e Paolo (Kessisoglu), ottimi comici, forse perché rei di aver fatto un’imitazione di Toninelli. In Italia tutto cambia perché tutto resti come prima.

Corsivo pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 5 gennaio 2019

Per Trump un duro fine anno. Sarà cosi anche il 2019?

Non è un fine anno allegro quello di Donald Trump. Le elezioni di metà mandato sono andate male, anche se non malissimo come pareva solo pochi mesi prima del giorno del voto: il partito del presidente ha mantenuto la maggioranza al Senato, ma la sconfitta alla Camera è stata pesante, anzi pesantissima. E dall’inizio del prossimo anno la Casa Bianca dovrà tenerne conto. In più c’è stata una serie di importanti dimissioni all’interno dell’Amministrazione: se ne sono andati il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, il capo dello staff presidenziale, John Kelly, e il ministro della Difesa, Jim Mattis, questi ultimi due ex generali, celebrati e incensati da Trump all’inizio del loro mandato, ma poi entrati in un insanabile conflitto con il capo della Casa Bianca.

 In più il presidente è nel mirino dell’inchiesta dello «special prosecutor» Robert Mueller che indaga sulle influenze russe sulle elezioni del 2016 ed è criticato all’interno del suo partito per la sua gestione della politica estera – la decisione di abbandonare la Siria al suo destino non è piaciuta a nessuno, almeno a Washington – e per i continui conflitti con la Federal Reserve – con minacce di destituzione per il presidente, Jerome Powell – che fanno fibrillare Wall Street.

 È una posizione difficile anche se l’imprevedibilità di Trump è proverbiale. E quasi sempre i presidenti Usa riescono a conquistare un secondo mandato.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 28 dicembre 2018

Recensione di «L’animale che mi porto dentro» di Francesco Piccolo

Sulla copertina di «L’animale che mi porto dentro», l’ultimo romanzo di Francesco Piccolo (Einaudi, 19,5 euro) campeggia una foto di Mario De Biasi, forse la sua foto più famosa, anche non la più bella, visto se De Biasi è stato uno dei più prolifici e bravi fotografi italiani. Il titolo è «Gli italiani si voltano» e ritrae una giovanissima Moira Orfei che, in un abito bianco molto fasciante, si dirige verso Galleria Vittorio Emanuele a Milano sotto lo sguardo di decine di maschi desiderosi. Correva l’anno 1954. In realtà, però, forse la foto più adatta al contenuto del libro è un’altra, egualmente bella e famosa, ma ancora più cruda nello svelamento delle dinamiche del desiderio maschile dell’Italia degli anni ‘50. Il suo titolo è «American Girl in Italy» ed è ambientata nel 1951 a Firenze: una ragazza passa velocemente su un marciapiede mentre un corridoio di uomini la guarda e commenta. Non è vestita in modo provocante, ma è chiaramente straniera, alta e altera. Oggetto del desiderio di tutti. Uno degli uomini ha le mani in tasca e, è abbastanza evidente, si sta toccando il pene, il «pirellino», direbbe Piccolo che cita Laura Antonelli in «Malizia».  La foto uscì, censurata, su «Cosmopolitan». La modella era Ninalee «Jinx» Allen Craig e la fotografa era Ruth Orkin.

Ecco il nocciolo del libro di Piccolo è tutto qui. Nel rapporto della generazione di maschi italiani nati negli anni ’60 – quella dell’autore e la mia – con i loro padri – quelli delle foto – e, soprattutto, con la propria vita sessuale un po’ modellata su quella della generazione precedente, un po’ modificata dalla rivoluzione sociale che era in corso in quegli anni in Italia. Piccolo è brutale nel descrivere la sessualità del suo personaggio, diviso tra l’«animale» – ipostatizzato nel suo organo sessuale, il «pirellino» o, nei momenti di maggior foga, semplicemente il «cazzo» – e il suo sentimentalismo. E così Francesco – il romanzo è una finta autobiografia – si strugge per la perdita – lui felicemente sposato e con due figli – dell’amante bellissima e con il seno perfetto, ma anche e soprattutto per il fatto che le ha prestato un libro che aveva regalato alla madre nell’infanzia con tanto di dedica.Libro che non rivedrà mai più.

La parte migliore del libro – a parte la filologica ricostruzione dell’immaginario erotico della mia generazione: dalle commedie pecorecce ai fumetti quasi porno di una sessualità soprattutto parlata e quasi mai agita – risiede nelle vicissitudini di questo Nathan Zuckerman adolescente di Caserta che, pieno di desiderio, fatica non poco a raggiungere il suo scopo, cioè «scopare». 

Troppo sentimentale, troppo attento ai vincoli della morale e allo stesso tempo troppo rabbioso, troppo abitato da una fame atavica, in senso proprio e figurato, per essere preso dalla ragnatela romantica che lui stesso ha costruito. Sono questi momenti, scene da una specie di poema cavalleresco provenzale – dove il desiderio è sempre differito – affrontati però con un piglio comico-carnevalesco bachtinianoche fanno ricordare l’opera di Piccolo che alla fine non è altro che l’educazione sentimentale di uno che – come quelli della mia generazione – non andrebbe mai dal parrucchiere, ma semmai dal barbiere. Visto che il parrucchiere è da femmine. E il barbiere da maschi. Una virilità fragilissima e rabbiosa che vive di contrapposizioni e che era dei nostri padri. E della quale, pur odiandola, non si riesce a fare a meno.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 15 dicembre 2018

Saipem vittima della guerra elettronica?

La notizia è questi passata inosservata – non in Borsa visto che il titolo venerdì scorso ha perso il 4,59% – ma Saipem, all’inizio della settimana scorsa, è stata oggetto di un pesantissimo attacco hacker. Saipem – acronimo di «Società Anonima Italiana Perforazioni E Montaggi» – fornisce, come recita Wikipedia, «servizi per il settore petrolifero. La società è specializzata nella realizzazione di infrastrutture riguardanti la ricerca di giacimenti di idrocarburi, la perforazione e la messa in produzione di pozzi petroliferi e la costruzione di oleodotti e gasdotti». E questo, come vedremo, è un dato interessante visto che potrebbe farci capire perché è stata attaccata.

Ma andiamo con ordine. Saipem ha fatto sapere – tramite Bloomberg, una delle più importanti agenzie di stampa economiche – di essere stata oggetto di un attacco informatico. In sintesi il «malware», cioè il virus informatico utilizzato, ha colpito circa 400 server della società basati in Medio Oriente (Emirati, Arabia Saudita e Kuwait) India, Scozia (Aberdeen) e, in modo limitato anche in Italia. Sempre secondo la società petrolifera italiana l’attacco ha avuto origine da Chennai in India, anche se non è detto che questo sia il punto di partenza dell’operazione. Accade spesso, infatti, che gli hacker costruiscano una falsa pista. Ma la cosa più interessante è il tipo di virus utilizzato. Si tratta, infatti, di una variante del «malware» Shamoon che è decisamente pernicioso, visto che è un «wiper», cioè cancella tutti i dati e le partizioni dei dischi dei computer attaccati, rendendoli di fatto inservibili, e, soprattutto, molto raro. «Shamoon (a volte chiamato Disttrack) – scrive Carola Frediani nella sua informatissima newsletter «Guerre di rete» – è stato identificato per la prima volta nel 2012 in un pesante attacco contro Saudi Aramco, tra le maggiori compagnie petrolifere al mondo, di proprietà del governo saudita (e corposo cliente di Saipem)». Un’altra variante – Shamoon 2 – è stata usata per attaccare, nel 2016, ancora una volta le industrie petrolifere saudite e pure la banca centrale del Regno.

Ma non è finita qui perché, negli stessi giorni dell’offensiva contro Saipem, sono state attaccate anche aziende degli Emirati e ancora dell’Arabia Saudita. I principali indiziati nel 2012 e nel 2016 furono i servizi iraniani. E se anche questa volta le piste investigative punteranno verso l’Iran l’azienda italiana si troverà nel bel mezzo di una vera e propria guerra elettronica tra Stati.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 17 dicembre 2018

Cherif Chekatt, un criminale diventato terrorista

Quella del criminale comune diventato terrorista è una storia che si ripete. Almeno in Francia, visto che la metà dei terroristi islamici francesi ha precedenti penali per reati comuni. Ma la storia di Cherif Chekatt, l’attentatore di Strasburgo ucciso ieri sera, è paradigmatica.  Checkatt, riporta «Le Monde», è uno dei 12 tra fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre di una famiglia problematica e decisamente allargata molto conosciuta a Strasburgo. Una battuta che gira tra gli avvocati della città è questa: «Non hai ancora difeso un Chekatt? Beh, prima o poi ti capiterà». Cherif ha un pedigree criminale con i fiocchi: 67 indagini per reati contro la persona o il patrimonio e 27 condanne.

Ma a un certo punto Cherif, il criminale Cherif, si radicalizza. Non si tratta di una conversione radicata in un genuino sentimento religioso, quanto piuttosto di un’adesione ai dettami di una stretta pratica religiosa legata a un’ideologia estremista piena di odio per gli infedeli. Cherif, il criminale Cherif, diventa Cherif l’islamista, il ragazzo che mostra ben evidente sulla fronte la «zebiba», il callo della preghiera dei musulmani osservanti.

Ora è pronto a incanalare il suo odio nichilista, la molla scatenante della devianza e che al tempo stesso la alimenta, verso un bersaglio preciso: gli «infedeli». Così parte la corsa contro il tempo per cercare di disinnescare questa bomba umana. Un lavoro di intelligence che, purtroppo, non è servito ad evitare la strage.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 14 dicembre

Europa amara per Facebook

Il 2018 è stato forse l’anno peggiore per Facebook che, dal giorno della fondazione (nel 2004, giova ricordarlo perché ormai il social network è talmente potente che ci si scorda che ha solo 14 anni di vita), non si è mai trovato in una situazione tanto delicata. E anche le ultime settimane sono state piene di dolori e problemi per l’azienda le cui azioni – come tutte quelle del settore tecnologico, va detto – sono in calo costante dopo i picchi di metà anno.

Le ultime disavventure partono dal rifiuto di Mark Zuckerberg di presentarsi davanti alla Commissione per il Digitale e i Media della Camera dei Comuni britannica che indaga su «disinformazione e fakenews». La sedia vuota con il nome del fondatore del social network di fonte a quelle occupata dai deputati di 9 Paesi invitati a presenziare all’audizione ha fatto il giro del web. E ha sporcato un po’ l’immagine da bravo ragazzo di Zuckerberg, mostrandone l’arroganza da navigato capitano d’industria. Ma questa non è la fine della storia perché il presidente della Commissione, il conservatore Damian Collins, ha pubblicato alcuni documenti, fatti da lui stesso sequestrare d’autorità a un manager di passaggio a Londra, da cui sembrano emergere nuovi indizi di vecchie pratiche di abuso dei profili degli utenti. Le 200 pagine di email interne svelate evidenziano in particolare la condivisione – si sospetta a pagamento – di dati personali di utilizzatori con altre aziende. Facebook ha smentito tutto, però è l’ennesima tegola che cade sulla testa di Zuckerberg.

Ma non è finita qui. Perché anche in Italia si è aperto un nuovo fronte. Infatti l’Antitrust ha stabilito che la società americana dovrà pagare due multe per un valore complessivo di 10 milioni di euro (il massimo edittale) per aver utilizzato a fini commerciali i dati dei suoi utenti senza che questi ne fossero consapevoli. Facebook si è difeso notando che «le persone hanno il possesso e il controllo delle loro informazioni personali» e ha promesso di collaborare con l’Authority italiana. Ma anche in questo caso conta di più l’effetto sul brand delle accuse rispetto all’entità del danno monetario. E il punto è proprio questo: Zuckerberg non sembra avere una strategia per confrontarsi con i decisori europei. E qui non basta avere la faccia del bravo ragazzo. O perlomeno, la faccia aiuto, ma è meglio avere un esercito di lobbisty come quelli assunti per tenere a bada il Congresso Usa.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 10 dicembre 2018

Recensione de «Gli Spaiati» di Ester Viola

E’ probabilmente falso dire che «il mare non bagna Napoli» come afferma Anna Maria Ortese nel titolo della sua raccolta di più famosa. È sicuramente vero che il mare non bagna Milano. Tuttalpiù, per i weekend d’estate, c’è Santa Margherita. Di questo Olivia Marni – nel nuovo libro di Ester Viola, «Gli spaiati», Einaudi, 2018, 17 euro – si rende conto subito nei primi giorni a Milano. Poi c’è freddo, c’è la nebbia (non quella di Benevento, d’accordo), si mangia male e si spende troppo in locali pretenziosi e piccoli come scatole di scarpe.

E comunque mica l’ha scelto Olivia tutto questo freddo. Semplicemente si è trasferita perché si è trasferito Luca Ardenghi, il suo capo e ora il suo compagno. E nemmeno Luca ha deciso autonomamente il trasloco: è arrivato a Milano perché la sua ex moglie, lei sì, ha deciso di cambiare città e vita. Oltre che stato civile. Ci sono i bambini di mezzo e Luca è (cioè, si considera) un buon padre, quindi «trasloco a Milano» come scelta obbligata. Così Olivia, un po’ come le salmerie di Napoleone che seguono l’esercito, il quale a sua volta si adegua alle decisioni dell’imperatore, si ritrova in un nuovo studio e in una nuova città, anche se il lavoro è sostanzialmente lo stesso, cioè quello del libro precedente: avvocato divorzista.

E naturalmente Olivia ha un nuovo status: quello di accoppiata in un mondo di spaiati, cioè di persone sole, che hanno lasciato o che sono state lasciate; che non hanno trovato o non sono state trovate, dolci mele, alte sul ramo più alto. La storia dell’amore spaiato è sempre quella ed è talmente così da sempre che per capirla ti aiuta anche Platone. Come racconta – o meglio fa raccontare nel «Simposio» a Aristofane – è tutta colpa di Zeus. E un po’ della hybris degli umani che quando si tratta di prendere d’assalto l’Olimpo son sempre pronti. Così Zeus con un fulmine li divide tutti. Perché, mi sono dimenticato di dirlo, all’epoca noi umani eravamo tondi, con quattro braccia, quattro gambe, due teste e due organi sessuali (si presume anche quattro reni e quattro polmoni, ma non è specificato). Il succo è questo: da allora noi umani siamo alla ricerca della nostra metà perduta. Il desiderio è questo anelare all’unità.

Solo che alcuni alla fine non la trovano la metà a cui ricongiungersi. E in effetti non è facile. Statisticamente, intendo. Così stanno da soli, struggendosi. O stanno in coppia, ma non troppo sicuri, cercando di darsi un tono, come Olivia che è quasi kierkegaardiana nella sua decisione etica di stare attaccata a Luca, ripetendo giorno per giorno la sua scelta. Bambini compresi.

Eppure, per dirla sempre con Platone, che questa volta fa parlare Diotima, Eros, l’Amore, è figlio di Penìa (la Povertà) e Pòros (la Ricchezza). É sazio, ma sempre affamato. É ricco, ma sempre povero. É appagato, ma sempre in cerca di qualcosa d’altro. Quindi aspettiamoci sviluppi a breve. Magari un ritorno a Napoli. Al suo mare, al suo vulcano, ai suoi cornetti. Del resto è il luogo dove accade tutto anche in questo libro così (fintamente) milanese.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del primo dicembre 2018

Il governo è nuovo, le scuse sono vecchie

E’ vero che non si vive solo di «numerini», come ci ricordano un giorno sì e l’altro pure gli esponenti del governo, ma quelli resi noti ieri dall’Istat sono «numerini» preoccupanti. Infatti certificano che l’economia italiana è in frenata nel terzo trimestre di quest’anno per la prima volta dal 2014. Si tratta di una variazione minima (-0,1% rispetto al trimestre precedente), ma vale per l’inversione del trend di crescita. Così la variazione acquisita per il 2018 è pari a +0,9% (al posto del +1,2% delle stime). Ma non è finita qui. Infatti anche i «numerini» del mercato del lavoro non sono esaltanti. La disoccupazione a ottobre, infatti, è al 10,6% con una crescita di 0,2 punti su settembre. La disoccupazione giovanile, poi, sale ancora di più (è al 32,5%).

 Come si vede dati non drammatici, ma sicuramente preoccupanti e che, sopratutto, indicano una tendenza negativa che presto potrebbe sfociare in una recessione. Ci sono, poi, molti dubbi che una manovra, come quella impostata dal governo, tutta puntata sulle spese sociali e non sugli investimenti, possa invertire il trend.

Però l’esecutivo sembra essere fin troppo ottimista con il premier Conte che dice che «il Pil verrà fatto crescere» e con i vicepremier che se la prendono, come da copione, con l’operato dei governi precedenti. Eppure l’esecutivo è in carica da mesi e non da pochi giorni. E tutto questo conferma il fatto che in Italia cambia tutto, ma nessuno si prende mai la responsabilità di niente.

Editoriale pubblicato il primo dicembre 2018 sulla Gazzetta di Parma