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Premi Pulitzer e facce di bronzo

Questa sera sono stati assegnati i premi Pulitzer, il maggior riconoscimento possibile per i giornalisti (e le testate) USA. I premi sono divisi per categorie e toccano tutti i generi giornalistici, comprese le vignette, che, negli States, sono considerati editoriali, cioè opinioni e sono pubblicati, appunto, nella pagine dei commenti di opinione.

Quest’anno il Pulitzer per l’Illustrated Reporting and Commentary (in questo caso, Illustrated Commentary) è andato a Ann Telnaes l’autrice della famosa vignetta (che metto come illustrazione) che non è stata pubblicata dal giornale per cui ha lavorato per 17 anni, cioè il Washington Post, perché il proprietario del WP – e di Amazon -, cioè Jeff Bezos, non ci faceva una bella figura.

Insomma, il Washington Post si prende – e rivendica – un Pulitzer per una giornalista che se ne è andata perché la vignetta che aveva disegnato, e per la quale ha preso il premio, non è stata pubblicata. Sono tempi strani e divertenti, ma di un’allegria da naufraghi alla deriva tra gli squali.

Cosa ha fatto il Lesotho agli Stati Uniti per avere i dazi più alti del mondo?

Qual è lo stato a cui Trump ha imposto le tariffe più alte? Non è uno dei soliti sospetti (Cina, Eu, i cattivissimi Canada e Messico e neppure gli infidi vietnamiti), ma un piccolo stato africano, il Lesotho.

Ai beni che provengono dal Lesotho l’Amministrazione Trump ha imposto dazi al 50%. La ragione dietro a questa idiozia è il fatto che il Lesotho – stato con una popolazione poverissima – non importa praticamente nulla dagli Stati Uniti e esporta negli Usa una cosa parecchio preziosa, cioè i diamanti.

Da qui lo squilibrio della bilancia commerciale che porta – tramite la demenziale formula usata per stabilire i “dazi reciproci” – alle tariffe del 50%.

Come questo possa aiutare il reshoring della manifattura degli Stati Uniti non è dato sapere, visto che non ci sono miniere di diamanti negli States anche perché non ci sono diamanti da estrarre.

L’unica cosa evidente è che alla Casa Bianca c’è un enorme idiota i cui collaboratori sono egualmente – o forse più – stupidi o non abbastanza in gamba – avendo avuto giorni per studiare una strategia meno insensata – da suggerire cose meno cretine.

E il fatto che ci sia un idiota alla Casa Bianca è il peggior scenario possibile, visto che se si trattasse solo di un criminale almeno massimizzerebbe il proprio tornaconto personale. Mentre gli idioti – come insegna Cipolla – fanno danni a sé e agli altri.

Lo spiega benissimo Binyamin Applebaum sul NYT.

New York Times

J D Vance, Peter Thiel e la libertà di parola

J D Vance raffigurato come il Grande Fratello. Immagine elaborata con l'intelligenza artificiale

C’è una vicenda famosa che ha fatto la storia degli anni 10 di questo secolo e racconta la chiusura di un sito che all’epoca era l’alfiere di un modo nuovo di fare giornalismo, eticamente discutibile, ma, oggettivamente, divertentissimo.

Il sito si chiamava Gawker ed era la creatura di un irregolare di nome Nick Denton, giornalista, imprenditore digitale, startupparo e visionario. Il killer di Gawker – la storia è strana, ma seguitemi – fu un wrestler famoso, Hulk Hogan che aveva fatto causa a Denton perché il sito aveva pubblicato (erano gli anni 10, eravamo tutti giovani e meno bacchettoni di ora) un video di lui che faceva sesso con la moglie di un (non troppo) amico. E Hogan c’era rimasto male, poverino. Di più l’amico, immagino, ma vabbè…

Hogan, che era arrabbiato come un wrestler, fece causa, però non aveva i soldi per pagare gli avvocati – bravissimi e costosissimi – che pilotarono il processo verso una condanna disastrosa per Denton che dovette vendere il sito per pagare i danni e le spese processuali.

Dietro Hogan c’era uno dei personaggio più potenti della Silicon Valley, uno di cui allora non si parlava tanto se non per sussurrare che era il padrone vero di PayPal e il mentore del giovane Elon Musk e che trafficava in materia di sicurezza nazionale con la sua nuova creatura Palantir, cioè Peter Theil il vero boss della “PayPal mafia”, una delle poche personalità della Valley a schierarsi, senza se e senza ma, con Donald Trump già nel 2016, un tempo in cui non andava tanto di moda, specie in quella parte della California.

Ma perché Thiel ce l’aveva tanto con Denton? Semplicemente perché Denton – con un’altra sua creatura, un sito che si chiamava ValleyWag e riportava pettegolezzi (e spesso spazzatura) sui giganti della digital economy – aveva messo in piazza il fatto che Thiel era omosessuale. Nulla di particolarmente scandaloso, per gli States di allora. E lo stesso Denton era comunque notoriamente un omosessuale. Solo che Thiel era un maniaco della privacy e – essendo un consevatore duro e puro da sempre – mal sopportava di essere additato come omosessuale. E quindi spese una somma enorme per farla pagare a Denton, tramite la causa di Hogan. Un piano a lungo termine che si sviluppò per anni e che alla fine, come detto, fece chiudere il sito.

Il senso di questa lunga digressione (raccontata benissimo da Ben Smith in quel libro bellissimo che si chiama “Traffic” e che trovate tradotto in italiano da Iperborea nella collana del Post)?

Beh il senso è che oggi, quando il vice presidente J.D. Vance (un’altra creatura di Thiel, meno geniale di Musk, ma con degli splendidi occhi azzurri che In politica fanno la differenza: un Ken con la barba ben curata e una laurea in una prestigiosa law school) ha pronunciato il suo pistolotto contro l’Europa che soffoca la libertà di parola mi è venuta in mente questa storia e mi sono messo a ridere. Per non piangere, ovvio.

Come diceva un tale in un libro abbastanza famoso “la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza” e via di doublethink”.

Heil myself! (or Springtime for Elon)

(Photo by ANGELA WEISS / AFP)

Ho visto parte delle cerimonie dell’Inauguration Day ieri. E, a parte il saluto  a braccio teso “con tutto il suo cuore” di Elon Musk, mi chiedo cosa sarebbe riuscito a cavarne quel genio di Mel Brooks da tanto materiale così naturalmente – e spaventosamente –  comico. 

Los Angeles, Joan Didion, il fuoco e il Santa Ana

«È difficile per chi non ha vissuto a Los Angeles capire quanto il Santa Ana sia radicato nell’immaginazione locale. La città che brucia è l’immagine più profonda che la città ha di sé stessa. Nathaniel West se ne era accorto in The Day of the Locust e, ai tempi dei riot di Watts, nel 1965, la cosa che colpiva l’immaginazione in modo più indelebile erano i fuochi. Per giorni, si poteva guidare lungo la Harbor Freeway e osservare la città in fiamme, come abbiamo sempre saputo che sarebbe finita».

Questa citazione di Joan Didion – tratta da Slouching Toward Bethlehem del 1969 – serve per far notare che gli incendi provocati dal Santa Ana sono una costante a Los Angeles. Come le rivolte e la mancanza d’acqua (Do you remember Chinatown?)

Joan Didion, Slouching Toward Bethlehem 

Federico Fubini, FiveThirtyEight e la trollfarm russa

Questa sera Federico Fubini ha pubblicato un interessante articolo sulle implicazioni italiane delle azioni di disinformazione dell’IRA, che non è l’Irish Republican Army, ma la famigerata trollfarm russa, Internet Research Agency. L’IRA, probabilmente, è stata coinvolta nel tentativo – non si sa quanto produttivo – di condizionare il voto USA alle presidenziale del 2016. Per questo è in corso un’indagine, vista come fumo negli occhi da Donald Trump,  dello special prosecutor Robert Mueller.  Peccato che, forse nel tentativo di mettere un  po’ di pepe sulla pietanza, Fubini faccia un po’ di confusione. Infatti, non si tratta di una fuga di notizie dall’ufficio di Mueller. Si tratta del lavoro di due ricercatori che hanno scaricato – con un programma commerciale – i tweet degli account dell’IRA che erano in una lista pubblica come dice a chiare lettere FiveThirtyEight che ha dato la notizia e che ha messo a disposizione i tre milioni  di tweet  su GitHub.

Questo è l’articolo di Federico Fubini sul Corriere della Sera online

Questo è l’articolo di FiveThirtyEight (se ne consiglia la lettura)

Questa è la repository di GitHub (se volete perdere del tempo, ma 3 milioni di tweet si affrontano con strumenti software e non con le citazioni di nomi illustri)

Questa è la bozza dell’articolo di  Darren L. Linvill e Patrick L. Warren (che forse vale la pena di leggere)

Corriere della Sera, FiveThirtyEight, Github, Darren L. Linvill e Patrick L. Warren