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Jules Feiffer (1929-2025)

Jules Feiffer è stato uno dei cartoonist (e non solo visto che è stato anche sceneggiatore: Carnal Knowledge, per dire) più importanti dagli anni ’70 in avanti negli Stati Uniti. Se ne è andato a 95 anni. Mancherà molto a chi, come me, lo ha scoperto leggendo Linus quando ancora andava alle medie. Qui l’articolo di necrologio del New York Times.

New York Times

Essere interrogati sulla crosta della pizza a Teheran

foto della prigione di Evin, Di Ehsan Iran – 88 from Flickr

Emma Bubola ha intervistato Cecilia Sala per il NYT. Molte cose sono già note. Alcune, abbastanza curiose, no. Tipo il fatto che le è stato chiesto se preferiva la pizza napoletana o la pinsa romana (sort of it)

“Chi la interrogava parlava un inglese impeccabile, ha detto Sala, e ha fatto capire che conosceva bene l’Italia chiedendole se preferisse la crosta della pizza romana o napoletana”.

New York Times

Poi Sala – che afferma che non tornerà più in Iran, almeno finché non cadrà il regime – ammette che non vede l’ora di tornare a fare la giornalista. Per parlare delle storie degli altri e non della sua.

Facebook d’ora in poi consentirà di paragonare le donne a oggetti

Martedì – si legge sul WSJ – Meta ha anche rivisto gli standard della community per allentare in modo significativo le restrizioni sui contenuti precedentemente considerati incitamento all’odio. Ad esempio, le regole aggiornate consentono “accuse di malattia mentale o anomalie quando basate sul genere o sull’orientamento sessuale” e annullano il divieto di paragonare le donne a “oggetti domestici o proprietà”.
 

Wall Street Journal

Cosa potrà mai andare storto?

Il resto in questo pezzo del WSJ dove dice anche che Zuckerberg si è accorto che qualcosa non andava nella moderazione del suo SNS quando un suo post su una banale operazione ai legamenti non ha fatto il botto su Facebook a causa del filtro sui contenuti sanitari.  Potenza dell’egotismo. 

Wall Street Journal, immagine generata con Grok

May, sconfitta devastante. Ma non c’è alternativa alla premier

«There is no alternative», «non c’è alternativa», era uno dei mantra più famosi di Margaret Thatcher, la «lady di ferro» che ha cambiato la Gran Bretagna in modo radicale. Questo mantra era tanto famoso da diventare un acronimo: «TINA». Era la parola finale della Thatcher quando si trattava di stroncare la resistenza dei minatori o se si trattava di sedare le rivolte all’interno del suo rissosissimo partito.

E anche ora – purtroppo – a Londra non ci sono alternative a Theresa May, nonostante la devastante sconfitta a Westminster sull’accordo sulla Brexit: 230 voti di scarto con mezzo partito conservatore che l’ha abbandonata come un cane ad agosto in tangenziale.

Oggi, infatti, con tutta probabilità la mozione di sfiducia presentata dai laburisti verrà bocciata dalla stessa maggioranza che si è sfarinata quando si è trattato di votare a favore di un accordo non perfetto, ma che comunque risolveva il nodo Brexit in modo non troppo pesante. Il fatto è che nessuno ha idea di come uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciata la Gran Bretagna con il referendum. E allora si manda avanti il caporale May che assomiglia sempre più a un fante mandato al massacro sul fronte della Somme. Difficile che, ormai ridotta a uno zombie politico, ottenga qualcosa di più da Bruxelles. intanto il fantasma del «no deal» è sempre più reale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 16 gennaio

Cherif Chekatt, un criminale diventato terrorista

Quella del criminale comune diventato terrorista è una storia che si ripete. Almeno in Francia, visto che la metà dei terroristi islamici francesi ha precedenti penali per reati comuni. Ma la storia di Cherif Chekatt, l’attentatore di Strasburgo ucciso ieri sera, è paradigmatica.  Checkatt, riporta «Le Monde», è uno dei 12 tra fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre di una famiglia problematica e decisamente allargata molto conosciuta a Strasburgo. Una battuta che gira tra gli avvocati della città è questa: «Non hai ancora difeso un Chekatt? Beh, prima o poi ti capiterà». Cherif ha un pedigree criminale con i fiocchi: 67 indagini per reati contro la persona o il patrimonio e 27 condanne.

Ma a un certo punto Cherif, il criminale Cherif, si radicalizza. Non si tratta di una conversione radicata in un genuino sentimento religioso, quanto piuttosto di un’adesione ai dettami di una stretta pratica religiosa legata a un’ideologia estremista piena di odio per gli infedeli. Cherif, il criminale Cherif, diventa Cherif l’islamista, il ragazzo che mostra ben evidente sulla fronte la «zebiba», il callo della preghiera dei musulmani osservanti.

Ora è pronto a incanalare il suo odio nichilista, la molla scatenante della devianza e che al tempo stesso la alimenta, verso un bersaglio preciso: gli «infedeli». Così parte la corsa contro il tempo per cercare di disinnescare questa bomba umana. Un lavoro di intelligence che, purtroppo, non è servito ad evitare la strage.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 14 dicembre

Il governo è nuovo, le scuse sono vecchie

E’ vero che non si vive solo di «numerini», come ci ricordano un giorno sì e l’altro pure gli esponenti del governo, ma quelli resi noti ieri dall’Istat sono «numerini» preoccupanti. Infatti certificano che l’economia italiana è in frenata nel terzo trimestre di quest’anno per la prima volta dal 2014. Si tratta di una variazione minima (-0,1% rispetto al trimestre precedente), ma vale per l’inversione del trend di crescita. Così la variazione acquisita per il 2018 è pari a +0,9% (al posto del +1,2% delle stime). Ma non è finita qui. Infatti anche i «numerini» del mercato del lavoro non sono esaltanti. La disoccupazione a ottobre, infatti, è al 10,6% con una crescita di 0,2 punti su settembre. La disoccupazione giovanile, poi, sale ancora di più (è al 32,5%).

 Come si vede dati non drammatici, ma sicuramente preoccupanti e che, sopratutto, indicano una tendenza negativa che presto potrebbe sfociare in una recessione. Ci sono, poi, molti dubbi che una manovra, come quella impostata dal governo, tutta puntata sulle spese sociali e non sugli investimenti, possa invertire il trend.

Però l’esecutivo sembra essere fin troppo ottimista con il premier Conte che dice che «il Pil verrà fatto crescere» e con i vicepremier che se la prendono, come da copione, con l’operato dei governi precedenti. Eppure l’esecutivo è in carica da mesi e non da pochi giorni. E tutto questo conferma il fatto che in Italia cambia tutto, ma nessuno si prende mai la responsabilità di niente.

Editoriale pubblicato il primo dicembre 2018 sulla Gazzetta di Parma

Brexit, la May si è cacciata in una strada senza uscite

«There will be difficult days ahead», «Abbiamo davanti giorni difficili», titolava ieri mattina il «Daily Telegraph», il più conservatore tra i grandi giornali inglesi riprendendo una frase profetica pronunciata la sera prima da Theresa May presentando la bozza di accordo per la Brexit. E i «giorni difficili» per la May sono iniziati subito: con le dimissioni a valanga nel governo, con la sfida ormai pubblica alla sua leadership all’interno del partito conservatore e con la conclamata mancanza di una maggioranza parlamentare, visto che gli unionisti nordirlandesi hanno ritirato il loro appoggio al governo.

 Le dimissioni sono pesantissime: ormai se ne sono andati in sette, tra cui il ministro e il sottosegretario alla Brexit (si tratta della seconda sostituzione per questa carica), così come il ministro per l’Irlanda del Nord, la persona che si sarebbe trovata a gestire la vera «patata bollente» cioè la questione del confine-non confine tra Irlanda del Nord e Irlanda. Per non parlare della mozione di sfiducia tra i tories che probabilmente troverà i voti necessari.

Ma i problemi non sono solo all’interno dei conservatori. Le 585 pagine della bozza di trattato, infatti, sono un pasticcio difficilmente digeribile dall’opposizione e che, quindi, difficilmente sarà digerito in Parlamento. Perciò la prospettiva più probabile è quella di un’uscita senza accordi. Una tragedia. Oppure quella di un nuovo referendum. Ma questa rimane l’ipotesi meno realistica. Purtroppo.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 16 novembre 2018

Il catenaccio di Trump ha evitato la disfatta

Il voto di metà mandato Usa è andato più o meno come avevano previsto i sondaggi: i democratici hanno conquistato la Camera con un buon margine, come accade di solito in questo tipo di elezioni al partito di opposizione; i repubblicani hanno conservato – e anzi aumentato – l’esile maggioranza che avevano al Senato. E anche questo era ampiamente previsto. La differenza tra il voto della Camera e quello del Senato dipende soprattutto dal fatto che, mentre la Camera viene rinnovata per intero ogni due anni, i seggi in palio al Senato sono solo un terzo di quelli totali e quest’anno la mappa elettorale favoriva i repubblicani piuttosto che i democratici. Anche la corsa per i governatori è andata come previsto: i democratici hanno vinto in molti Stati, ma la perdita per i repubblicani non è stata massiccia come poteva essere. Nelle sfide più seguite mediaticamente, quelle per la Georgia e quella per la Florida, poi, i repubblicani hanno tenuto e gli sfidanti democratici sono stati battuti anche se di misura.

In termini calcistici possiamo quindi dire che il «catenaccio» impostato da Donald Trump ha evitato una sconfitta netta del Grand Old Party (così viene chiamato il partito repubblicano). Il presidente ha, giustamente, dato per perso il Congresso e ha concentrato i suoi sforzi sui seggi più importanti del Senato e sulle battaglie di maggior spessore a livello governatoriale. Una strategia vincente che ha permesso di limitare le perdite. Una strategia che dimostra che Trump, con il suo stile comunicativo fiammeggiante e politicamente scorretto, è capace come nessun altro di portare alle urne e compattare i conservatori americani anche di fronte all’«onda azzurra» dei democratici.

Da oggi, però, si comincia già a impostare la campagna per le presidenziali del 2020. I democratici cercheranno di rallentare o bloccare il più possibile l’attività del presidente ora che hanno in mano la Camera che, tra l’altro, ha poteri di inchiesta molto ampi. Quindi per Trump sarà più difficile governare. Però il presidente in carica resta in ottima posizione per la vittoria, perché i democratici non hanno ancora una leadership chiara e il processo di scelta del candidato – con le primarie – potrebbe causare numerose lacerazioni. Resta da dire, comunque, che la personalità fiammeggiante di Trump capace di energizzare la propria base elettorale proprio per questo energizza anche l’opposizione che, in questo modo, ha meno bisogno di stimoli per andare al voto in modo massiccio. Quindi è probabile che tra due anni ci troveremo davanti a un altro referendum su Trump. A meno che dalle primarie democratiche non salti fuori un nuovo Barack Obama.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma dell’8 novembre 2018

La cyber guerra tra gli Stati è già iniziata

E’ stata una settimana piena di notizie sul fronte della guerra cibernetica che si sta combattendo tra le grandi potenze, cioè Russia, Cina e il blocco occidentale (Stati Uniti e paesi dell’Occidente). Prima l’Olanda ha accusato la Russia di avere messo a segno un attacco contro l’Opac, l’Agenzia per la proibizione della armi chimiche, che ha sede all’Aja, e ha convocato l’ambasciatore russo dopo aver espulso quattro agenti dei servizi segreti militari russi (Gru). Accuse alla Russia sono arrivate anche da Gran Bretagna e Australia, secondo le quali il Gru sarebbe dietro un’ondata di attacchi informatici «indiscriminati e temerari» contro istituzioni, imprese e media. Poi è stata la volta degli Stati Uniti: Il dipartimento di Giustizia Usa, infatti, ha incriminato sette appartenenti al solito Gru per una sfilza di accuse che vanno dagli attacchi al Comitato olimpico all’avvelenamento della ex spia russa Serghiei Skripal.

Ma non è finita qui. Un articolo di Bloomberg BusinessWeek ha accusato la Cina di aver usato piccolissimi chip per infiltrarsi nelle società tecnologiche americane, incluse Apple e Amazon. Grazie ai chip le spie cinesi sarebbero riuscite a raggiungere circa 30 aziende americane. I due giganti del web hanno smentito categoricamente, ma i dubbi restano.

E’ di qualche tempo fa, poi, la scoperta – e la divulgazione – dell’arsenale di «cyberarmi» usate dalle spie Usa. La morale di tutto questo è una sola: gli hacker più pericolosi sono i governi.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma dell’8 ottobre 2018