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Alitalia, il ritorno dello Stato aviatore

C’era una volta, non tanto tempo fa, lo stato imprenditore. C’erano una volta le grandi aziende di Stato che producevano di tutto: dall’acciao ai panettoni. C’era una volta il Ministero delle Partecipazioni statali che coordinava un sacco di sigle che ora sembrano astruse: Iri, Eni, Egam, Eagc, Efim, Eagat e Eamo. Per non parlare di Enel, Ferrovie dello Stato, Poste, delle banche e della Telecom-Sip. E di Alitalia. Una fetta enorme dell’economia italiana dipendeva da decisioni politiche. 

Poi, sotto il peso del nostro debito pubblico e delle terribili inefficienze economiche di questo sistema, si iniziò a privatizzare. Fu un processo difficile, lungo, con grandi costi sociali e a volte con pessimi risultati. Un esempio su tutti: Telecom. Eppure fu un processo doveroso perché la gestione delle aziende non deve dipendere dalla politica. Pena la nazionalizzazione dei costi delle inefficienze provocate dalla politica.

Con Alitalia, sembra che si voglia tornare indietro e lo Stato (ministero del Tesoro, e Ferrovie) potrebbe superare il 50% del capitale della società con l’aiuto di Cdp. Intendiamoci: con le regole europee l’intervento non potrà essere una semplice nazionalizzazione. Ma l’operazione è giustificata sempre allo stesso modo: la salvaguardia dei livelli occupazionali. Solo che una società non efficiente è destinata a perdere soldi e poi a fallire. O a essere «salvata» per l’ennesima volta. E alla fine il conto lo pagheremo noi cittadini.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 15 febbraio 2019

Maduro è un dittatore, ma l’Italia tentenna

Uno degli ultimi successi del governo di Nicolás Maduro è il ritorno in Venezuela della difterite. Lo ricorda uno studio Universidad Central de Venezuela pubblicato da «Lancet Public Health», secondo cui le cause principali del fatto che il tasso di mortalità infantile è tornato ai livelli degli anni ’90, sono la malnutrizione e il collasso del sistema sanitario.

Questo per dire che la crisi politica del Venezuela non è solo un caso di schizofrenia istituzionale, ma anche e soprattutto un problema di sopravvivenza per i venezuelani. La schizofrenia è dovuta al fatto che non solo ci sono due presidenti – Maduro e il presidente del parlamento Juan Guaidó -, ma anche due «parlamenti» visto che all’Assemblea nazionale, controllata dall’opposizione, si contrappone l’Assemblea nazionale costituente, eletta dopo un voto farsa, e che è «madurista» come il Tribunale supremo.

Di fronte a questo groviglio resta però il fatto che il Paese è allo sfascio a causa delle velleitarie politiche del regime. E tutto è aggravato dalle sanzioni imposte al Paese perché Maduro non rispetta i diritti umani. Questa situazione richiede che i Paesi democratici riconoscano Guaidó, il giovane leader dell’opposizione che ha promesso il voto al più presto. Ma il governo italiano tentenna. Anzi i 5 Stelle premono perché si allinei alla posizione «terzista» del Messico e dell’Uruguay. Il tutto in nome di una stantia ideologia terzomondista che chiude gli occhi di fronte a un regime brutale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 29 gennaio

May, sconfitta devastante. Ma non c’è alternativa alla premier

«There is no alternative», «non c’è alternativa», era uno dei mantra più famosi di Margaret Thatcher, la «lady di ferro» che ha cambiato la Gran Bretagna in modo radicale. Questo mantra era tanto famoso da diventare un acronimo: «TINA». Era la parola finale della Thatcher quando si trattava di stroncare la resistenza dei minatori o se si trattava di sedare le rivolte all’interno del suo rissosissimo partito.

E anche ora – purtroppo – a Londra non ci sono alternative a Theresa May, nonostante la devastante sconfitta a Westminster sull’accordo sulla Brexit: 230 voti di scarto con mezzo partito conservatore che l’ha abbandonata come un cane ad agosto in tangenziale.

Oggi, infatti, con tutta probabilità la mozione di sfiducia presentata dai laburisti verrà bocciata dalla stessa maggioranza che si è sfarinata quando si è trattato di votare a favore di un accordo non perfetto, ma che comunque risolveva il nodo Brexit in modo non troppo pesante. Il fatto è che nessuno ha idea di come uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciata la Gran Bretagna con il referendum. E allora si manda avanti il caporale May che assomiglia sempre più a un fante mandato al massacro sul fronte della Somme. Difficile che, ormai ridotta a uno zombie politico, ottenga qualcosa di più da Bruxelles. intanto il fantasma del «no deal» è sempre più reale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 16 gennaio

Brexit: Londra è (in)decisa a tutto

«Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente». Molti a Londra in questi giorni vorrebbero avere l’ottimismo – o il giudizio accecato dall’ideologia, a volte le due cose si equivalgono – di Mao Zedong, l’autore della celebre massima.

Infatti la confusione – a pochi giorni dal voto sull’accorto trovato dalla premier Theresa May con la Ue, previsto per martedì prossimo – è grande. Anzi enorme. È, infatti, altamente probabile che l’accordo venga bocciato dal Parlamento, visto che non ha convinto nemmeno i conservatori, il partito della May che è diviso – come tutto il Paese – tra fautori della Brexit e invece chi preferirebbe rimanere nell’Unione europea.  Eppure la quasi certezza della bocciatura del piano che potrebbe portare a una disastrosa uscita del Regno Unito dalla Ue senza alcun accordo, pare aver stregato l’intera classe politica bloccata e immobile. Pietrificata dallo sguardo di Medusa. 

C’è chi preferisce un accordo con meno vincoli, c’è chi vuole un patto ancora più stringente, c’è chi chiede più tempo e un secondo negoziato, c’è chi punta a un secondo referendum che annulli il primo e chi, invece, spera nelle elezioni anticipate. Ma nessuno sembra prendere sul serio l’ipotesi di un «no deal», del mancato accordo, che a ogni ora che passa, sembra sempre più spaventosamente reale. Con la recessione mondiale che, secondo tutti gli studi, potrebbe innescare.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 12 gennaio 2019

Per Trump un duro fine anno. Sarà cosi anche il 2019?

Non è un fine anno allegro quello di Donald Trump. Le elezioni di metà mandato sono andate male, anche se non malissimo come pareva solo pochi mesi prima del giorno del voto: il partito del presidente ha mantenuto la maggioranza al Senato, ma la sconfitta alla Camera è stata pesante, anzi pesantissima. E dall’inizio del prossimo anno la Casa Bianca dovrà tenerne conto. In più c’è stata una serie di importanti dimissioni all’interno dell’Amministrazione: se ne sono andati il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, il capo dello staff presidenziale, John Kelly, e il ministro della Difesa, Jim Mattis, questi ultimi due ex generali, celebrati e incensati da Trump all’inizio del loro mandato, ma poi entrati in un insanabile conflitto con il capo della Casa Bianca.

 In più il presidente è nel mirino dell’inchiesta dello «special prosecutor» Robert Mueller che indaga sulle influenze russe sulle elezioni del 2016 ed è criticato all’interno del suo partito per la sua gestione della politica estera – la decisione di abbandonare la Siria al suo destino non è piaciuta a nessuno, almeno a Washington – e per i continui conflitti con la Federal Reserve – con minacce di destituzione per il presidente, Jerome Powell – che fanno fibrillare Wall Street.

 È una posizione difficile anche se l’imprevedibilità di Trump è proverbiale. E quasi sempre i presidenti Usa riescono a conquistare un secondo mandato.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 28 dicembre 2018

Cherif Chekatt, un criminale diventato terrorista

Quella del criminale comune diventato terrorista è una storia che si ripete. Almeno in Francia, visto che la metà dei terroristi islamici francesi ha precedenti penali per reati comuni. Ma la storia di Cherif Chekatt, l’attentatore di Strasburgo ucciso ieri sera, è paradigmatica.  Checkatt, riporta «Le Monde», è uno dei 12 tra fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre di una famiglia problematica e decisamente allargata molto conosciuta a Strasburgo. Una battuta che gira tra gli avvocati della città è questa: «Non hai ancora difeso un Chekatt? Beh, prima o poi ti capiterà». Cherif ha un pedigree criminale con i fiocchi: 67 indagini per reati contro la persona o il patrimonio e 27 condanne.

Ma a un certo punto Cherif, il criminale Cherif, si radicalizza. Non si tratta di una conversione radicata in un genuino sentimento religioso, quanto piuttosto di un’adesione ai dettami di una stretta pratica religiosa legata a un’ideologia estremista piena di odio per gli infedeli. Cherif, il criminale Cherif, diventa Cherif l’islamista, il ragazzo che mostra ben evidente sulla fronte la «zebiba», il callo della preghiera dei musulmani osservanti.

Ora è pronto a incanalare il suo odio nichilista, la molla scatenante della devianza e che al tempo stesso la alimenta, verso un bersaglio preciso: gli «infedeli». Così parte la corsa contro il tempo per cercare di disinnescare questa bomba umana. Un lavoro di intelligence che, purtroppo, non è servito ad evitare la strage.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 14 dicembre

La politica ha perso il significato delle parole

E’ stato un fine settimana in crescendo. Prima c’è stato il battibecco tra il sindaco di Milano Beppe Sala e il vicepremier Luigi Di Maio sulla chiusura domenicale delle attività economiche. Sala con spirito polemico molto milanese – e con un po’ di sicumera, anch’essa molto milanese – ha invitato il governo a chiudere i negozi ad Avellino e a non rompere «le palle» – altra espressione molto milanese – alla capitale industriale (e morale, aggiungerebbero i milanesi) del Paese.

Luigi Di Maio – che non è milanese, ma campano – se l’è presa. E forse non a torto. Ma al posto di far notare i luoghi comuni di Sala («A Milano si lavora, ad Avellino si sonnecchia») ha detto che il sindaco è un «fighetto». E per rendere più pepato l’epiteto ha aggiunto «del Pd». E dire che Sala ha decine di anni di carriera da manager alle spalle, cosa che non si può dire dell’azzimatissimo Di Maio.

Ma l’assurdo l’abbiamo raggiunto ieri, quando Matteo Salvini ha detto all'(ex) alleato Silvio Berlusconi di smettere di lamentarsi come un «frustrato di sinistra», trasformando l’uomo che – parole sue – si è sempre battuto con il sole in tasca contro il comunismo in un vecchio brontolone. E di sinistra.

Il teatrino della politica ha sempre avuto i suoi riti e le sue parole di legno, autoreferenziali e staccate dalla realtà, ma siamo arrivati oltre il limite di guardia. Però vedrete che anche di questo daranno la colpa ai giornalisti.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 12 novembre 2018

Il catenaccio di Trump ha evitato la disfatta

Il voto di metà mandato Usa è andato più o meno come avevano previsto i sondaggi: i democratici hanno conquistato la Camera con un buon margine, come accade di solito in questo tipo di elezioni al partito di opposizione; i repubblicani hanno conservato – e anzi aumentato – l’esile maggioranza che avevano al Senato. E anche questo era ampiamente previsto. La differenza tra il voto della Camera e quello del Senato dipende soprattutto dal fatto che, mentre la Camera viene rinnovata per intero ogni due anni, i seggi in palio al Senato sono solo un terzo di quelli totali e quest’anno la mappa elettorale favoriva i repubblicani piuttosto che i democratici. Anche la corsa per i governatori è andata come previsto: i democratici hanno vinto in molti Stati, ma la perdita per i repubblicani non è stata massiccia come poteva essere. Nelle sfide più seguite mediaticamente, quelle per la Georgia e quella per la Florida, poi, i repubblicani hanno tenuto e gli sfidanti democratici sono stati battuti anche se di misura.

In termini calcistici possiamo quindi dire che il «catenaccio» impostato da Donald Trump ha evitato una sconfitta netta del Grand Old Party (così viene chiamato il partito repubblicano). Il presidente ha, giustamente, dato per perso il Congresso e ha concentrato i suoi sforzi sui seggi più importanti del Senato e sulle battaglie di maggior spessore a livello governatoriale. Una strategia vincente che ha permesso di limitare le perdite. Una strategia che dimostra che Trump, con il suo stile comunicativo fiammeggiante e politicamente scorretto, è capace come nessun altro di portare alle urne e compattare i conservatori americani anche di fronte all’«onda azzurra» dei democratici.

Da oggi, però, si comincia già a impostare la campagna per le presidenziali del 2020. I democratici cercheranno di rallentare o bloccare il più possibile l’attività del presidente ora che hanno in mano la Camera che, tra l’altro, ha poteri di inchiesta molto ampi. Quindi per Trump sarà più difficile governare. Però il presidente in carica resta in ottima posizione per la vittoria, perché i democratici non hanno ancora una leadership chiara e il processo di scelta del candidato – con le primarie – potrebbe causare numerose lacerazioni. Resta da dire, comunque, che la personalità fiammeggiante di Trump capace di energizzare la propria base elettorale proprio per questo energizza anche l’opposizione che, in questo modo, ha meno bisogno di stimoli per andare al voto in modo massiccio. Quindi è probabile che tra due anni ci troveremo davanti a un altro referendum su Trump. A meno che dalle primarie democratiche non salti fuori un nuovo Barack Obama.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma dell’8 novembre 2018

Usa, il Midterm è un referendum su Trump

Tradizionalmente le elezioni politiche di midterm (quelle che si svolgono a metà del mandato presidenziale) non sono particolarmente partecipate. E tradizionalmente non favoriscono il presidente in carica. Ma quest’anno le cose potrebbero essere diverse. Nel senso che sicuramente le elezioni saranno molto partecipate, già ora è record nel voto anticipato, perché la figura di Donald Trump è molto divisiva e stimola all’azione. Ma non è detto che questo referendum sul presidente sia a lui sfavorevole. 
Le elezioni si terranno martedì prossimo, cioè il primo martedì di novembre come da tradizione.

Secondo i sondaggi – che però con Trump hanno già sbagliato una volta – il voto favorirà i democratici che dovrebbero riguadagnare la maggioranza alla Camera che viene interamente rinnovata. Discorso diverso per il Senato (che si rinnova solo per un terzo) che probabilmente rimarrà in mano ai repubblicani.

Ma Trump sta tentando il tutto per tutto per ribaltare il risultato. Di qui le affermazioni sempre più dure sull’immigrazione – con spot tv decisamente razzisti – e contro i diritti civili dei transgender. Fino alle affermazioni sull’abolizione – con decreto presidenziale – dello «Ius soli» che è garantito nel 14º emendamento della Costituzione Usa che è rigida come la nostra. Tutta carne rossa per il suo elettorato. La volta scorsa è stata una strategia vincente. Lo sarà anche stavolta?

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 2 novembre 2018

Usa, il rischio del terrorismo a pochi giorni dal voto

Negli Stati Uniti è tornata la paura dei pacchi bomba. Non è una paura inedita: basta pensare a Theodore Kaczynski, meglio noto come Unabomber, il terrorista solitario e coltissimo (laurea ad Harvard e PhD in matematica all’università del Michigan) che colpì più volte durante un periodo di quasi diciotto anni, provocando 3 morti e 23 feriti. Unabomber, nel suo delirio antitecnologico, colpiva quelli che pensava fossero gli agenti di una rivoluzione informatica che avrebbe privato gli americani della loro libertà.
Questa volta, invece, le bombe hanno bersagli più consueti: sono persone – tutti democratici – che, in qualche modo, si sono opposte a Donald Trump: Barack Obama, Hillary Clinton, il vice presidente Joe Biden, George Soros, il miliardario che è una specie di bestia nera dei movimenti di destra, l’ex ministro della giustizia Eric Holder e – udite, udite – anche Robert De Niro reo di non sopportare Trump. Le indagini sono in corso e si spera che in breve tempo si trovi il responsabile – o i responsabili – di questi atti di terrorismo.

Ma questo succede a pochi giorni dalla elezioni di Midterm, che si terranno martedì 6 novembre, e dimostra l’asprezza di questa campagna elettorale che, se possibile, è anche peggio di quella delle ultime presidenziali. Ora bisognerebbe abbassare i toni. Ma nell’America attuale è un pio desiderio. E forse il problema è proprio questo.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 26 ottobre 2018