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Recensione di «L’animale che mi porto dentro» di Francesco Piccolo

Sulla copertina di «L’animale che mi porto dentro», l’ultimo romanzo di Francesco Piccolo (Einaudi, 19,5 euro) campeggia una foto di Mario De Biasi, forse la sua foto più famosa, anche non la più bella, visto se De Biasi è stato uno dei più prolifici e bravi fotografi italiani. Il titolo è «Gli italiani si voltano» e ritrae una giovanissima Moira Orfei che, in un abito bianco molto fasciante, si dirige verso Galleria Vittorio Emanuele a Milano sotto lo sguardo di decine di maschi desiderosi. Correva l’anno 1954. In realtà, però, forse la foto più adatta al contenuto del libro è un’altra, egualmente bella e famosa, ma ancora più cruda nello svelamento delle dinamiche del desiderio maschile dell’Italia degli anni ‘50. Il suo titolo è «American Girl in Italy» ed è ambientata nel 1951 a Firenze: una ragazza passa velocemente su un marciapiede mentre un corridoio di uomini la guarda e commenta. Non è vestita in modo provocante, ma è chiaramente straniera, alta e altera. Oggetto del desiderio di tutti. Uno degli uomini ha le mani in tasca e, è abbastanza evidente, si sta toccando il pene, il «pirellino», direbbe Piccolo che cita Laura Antonelli in «Malizia».  La foto uscì, censurata, su «Cosmopolitan». La modella era Ninalee «Jinx» Allen Craig e la fotografa era Ruth Orkin.

Ecco il nocciolo del libro di Piccolo è tutto qui. Nel rapporto della generazione di maschi italiani nati negli anni ’60 – quella dell’autore e la mia – con i loro padri – quelli delle foto – e, soprattutto, con la propria vita sessuale un po’ modellata su quella della generazione precedente, un po’ modificata dalla rivoluzione sociale che era in corso in quegli anni in Italia. Piccolo è brutale nel descrivere la sessualità del suo personaggio, diviso tra l’«animale» – ipostatizzato nel suo organo sessuale, il «pirellino» o, nei momenti di maggior foga, semplicemente il «cazzo» – e il suo sentimentalismo. E così Francesco – il romanzo è una finta autobiografia – si strugge per la perdita – lui felicemente sposato e con due figli – dell’amante bellissima e con il seno perfetto, ma anche e soprattutto per il fatto che le ha prestato un libro che aveva regalato alla madre nell’infanzia con tanto di dedica.Libro che non rivedrà mai più.

La parte migliore del libro – a parte la filologica ricostruzione dell’immaginario erotico della mia generazione: dalle commedie pecorecce ai fumetti quasi porno di una sessualità soprattutto parlata e quasi mai agita – risiede nelle vicissitudini di questo Nathan Zuckerman adolescente di Caserta che, pieno di desiderio, fatica non poco a raggiungere il suo scopo, cioè «scopare». 

Troppo sentimentale, troppo attento ai vincoli della morale e allo stesso tempo troppo rabbioso, troppo abitato da una fame atavica, in senso proprio e figurato, per essere preso dalla ragnatela romantica che lui stesso ha costruito. Sono questi momenti, scene da una specie di poema cavalleresco provenzale – dove il desiderio è sempre differito – affrontati però con un piglio comico-carnevalesco bachtinianoche fanno ricordare l’opera di Piccolo che alla fine non è altro che l’educazione sentimentale di uno che – come quelli della mia generazione – non andrebbe mai dal parrucchiere, ma semmai dal barbiere. Visto che il parrucchiere è da femmine. E il barbiere da maschi. Una virilità fragilissima e rabbiosa che vive di contrapposizioni e che era dei nostri padri. E della quale, pur odiandola, non si riesce a fare a meno.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 15 dicembre 2018

Recensione de «Gli Spaiati» di Ester Viola

E’ probabilmente falso dire che «il mare non bagna Napoli» come afferma Anna Maria Ortese nel titolo della sua raccolta di più famosa. È sicuramente vero che il mare non bagna Milano. Tuttalpiù, per i weekend d’estate, c’è Santa Margherita. Di questo Olivia Marni – nel nuovo libro di Ester Viola, «Gli spaiati», Einaudi, 2018, 17 euro – si rende conto subito nei primi giorni a Milano. Poi c’è freddo, c’è la nebbia (non quella di Benevento, d’accordo), si mangia male e si spende troppo in locali pretenziosi e piccoli come scatole di scarpe.

E comunque mica l’ha scelto Olivia tutto questo freddo. Semplicemente si è trasferita perché si è trasferito Luca Ardenghi, il suo capo e ora il suo compagno. E nemmeno Luca ha deciso autonomamente il trasloco: è arrivato a Milano perché la sua ex moglie, lei sì, ha deciso di cambiare città e vita. Oltre che stato civile. Ci sono i bambini di mezzo e Luca è (cioè, si considera) un buon padre, quindi «trasloco a Milano» come scelta obbligata. Così Olivia, un po’ come le salmerie di Napoleone che seguono l’esercito, il quale a sua volta si adegua alle decisioni dell’imperatore, si ritrova in un nuovo studio e in una nuova città, anche se il lavoro è sostanzialmente lo stesso, cioè quello del libro precedente: avvocato divorzista.

E naturalmente Olivia ha un nuovo status: quello di accoppiata in un mondo di spaiati, cioè di persone sole, che hanno lasciato o che sono state lasciate; che non hanno trovato o non sono state trovate, dolci mele, alte sul ramo più alto. La storia dell’amore spaiato è sempre quella ed è talmente così da sempre che per capirla ti aiuta anche Platone. Come racconta – o meglio fa raccontare nel «Simposio» a Aristofane – è tutta colpa di Zeus. E un po’ della hybris degli umani che quando si tratta di prendere d’assalto l’Olimpo son sempre pronti. Così Zeus con un fulmine li divide tutti. Perché, mi sono dimenticato di dirlo, all’epoca noi umani eravamo tondi, con quattro braccia, quattro gambe, due teste e due organi sessuali (si presume anche quattro reni e quattro polmoni, ma non è specificato). Il succo è questo: da allora noi umani siamo alla ricerca della nostra metà perduta. Il desiderio è questo anelare all’unità.

Solo che alcuni alla fine non la trovano la metà a cui ricongiungersi. E in effetti non è facile. Statisticamente, intendo. Così stanno da soli, struggendosi. O stanno in coppia, ma non troppo sicuri, cercando di darsi un tono, come Olivia che è quasi kierkegaardiana nella sua decisione etica di stare attaccata a Luca, ripetendo giorno per giorno la sua scelta. Bambini compresi.

Eppure, per dirla sempre con Platone, che questa volta fa parlare Diotima, Eros, l’Amore, è figlio di Penìa (la Povertà) e Pòros (la Ricchezza). É sazio, ma sempre affamato. É ricco, ma sempre povero. É appagato, ma sempre in cerca di qualcosa d’altro. Quindi aspettiamoci sviluppi a breve. Magari un ritorno a Napoli. Al suo mare, al suo vulcano, ai suoi cornetti. Del resto è il luogo dove accade tutto anche in questo libro così (fintamente) milanese.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del primo dicembre 2018

«Allegre apocalissi» di Giorgio Triani

Il futuro è un tema ricorrente della riflessione del sociologo parmigiano Giorgio Triani. E’ nel titolo del suo ultimo libro – «Allegre apocalissi. Il (passato) futuro che ci attende». Ma è anche il fulcro della riflessione del suo libro precedente, «Il futuro è adesso. Società mobile e istantocrazia», scritto nel 2013.

Ed è strano questo interessarsi al tema in una società che ha smesso di interrogarsi sul futuro perché è sempre meno attenta al senso della storia, visto che le grandi narrazioni del progresso sono morte – o meglio sono immerse in un sonno profondissimo e stregato, come i dormienti della mitologia celtica – con la fine del secolo scorso. Non si tratta certo del futuro banale dei futurologi che proiettano matrici di possibilità su un tempo lineare facendoci baluginare quinte da fumetto come quelli dei «Pronipoti», la serie a cartoni animati di Hanna e Barbera.

Quindi che tipo di futuro è quello che prevede Triani? Non è un futuro escatologico da fine della storia. Anche perché la storia è già finita un paio di volte per poi ritornare, sempre sull’onda dell’ultimo saggio di Francis Fukuyama. E non è neppure quello delle «magnifiche sorti e progressive» irrise dal Leopardi, anche perché l’idea di progresso si è estinta. Eppure non è il futuro disperato dei capolavori distopici della nostra tradizione, lo specchio scuro e distorto – ma più vero in termine di bruciante realtà esperienziale – delle utopie che hanno affollato il ‘900. E’, piuttosto, un futuro disperatamente allegro. Un futuro che nasce da uno sguardo che vede i vincoli e li teme, ma al tempo stesso tiene conto delle possibilità che questo vincoli aprono e prova a immaginarsi la via stretta per superarli.

Una via che non sia quella del pensiero fossile della ribellione o dell’assoluto appiattimento alla nostra realtà iperveloce. E’ come se l’angelo benjaminiano, con le ali non più impigliate nella tempesta del progresso, avesse imparato a sorridere e, nella debole luce messianica di questo sorriso, le macerie ai suoi piedi, per un istante, fossero sul punto di ricomporsi.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 6 novembre 2018

Alberto Sordi e il suo doppio

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Cominciamo con gli aneddoti che Tatti Sanguineti ha messo in ordine alfabetico nel secondo capitolo del suo bellissimo libro su Rodolfo Sonego («Il cervello di Alberto Sordi. Rodolfo Sonego e il suo cinema», Adelphi, 26 euro). Facciamo una cosa semplice:  cominciamo dall’inizio – lasciando stare per ora Andreotti (ne parleremo poi) – con Laura Antonelli, recentemente scomparsa. Sonego – l’altra metà di Alberto Sordi, il suo sceneggiatore di fiducia, il suo doppio, il «cervello» del grande attore per usare la metafora di Sanguineti – la conosce giovanissima, a 17 anni, e la prima cosa che lei gli dice è «no me piase. No me interesa». Sonego e i suoi amici si sforzano di farle fare i provini, ma i «no me piase» si moltiplicano. Alla fine – lei è di una bellezza che toglie il fiato – la carriera decolla e dopo «Moglieamante» la cercano gli americani – Sam Cohen, una leggenda detto «Mr Five Calls» per il numero massimo di telefonata con cui risolveva qualunque problema – per un contratto a Hollywood. Ma la risposta della Antonelli è sempre la stessa «No me interesa». Sonego cerca di farla ragionare, ma non c’è nulla da fare. La ritrova nel pieno della bufera Belmondo – il rapporto con il popolare attore francese è a base di sesso, sregolatezza e botte – e anche stavolta cerca di aiutarla. Ma lei, piena di lividi, lo ferma con una straziante confessione, detta con tutta la leggerezza possibile: «Senti Rodolfo, tu devi tener conto che io sono pazza».

Se non basta questo c’è l’incontro con Silvio Berlusconi che lo paga per una consulenza che non si tradurrà mai in pratica, ma che verrà regolarmente pagata. Con il Cavaliere Sonego prova una «sensazione di fastidio agli occhi come quando hai davanti un vetro doppio o vedi un immagine sfalsata». Lo stesso gli era accaduto con Alighiero Noschese, il re degli imitatori dell’era del monopolio Rai: «Pensai che non avrei saputo disegnarlo […] era senza faccia, o meglio era una faccia che diventava troppo facilmente un’altra faccia». Il Cav, poi, gli sembra rifatto come una vecchia signora: «Ma lui era giovane, era un uomo di forse neanche 50 anni». Insomma lo avrete capito: ogni aneddoto è una piccola sceneggiatura.

E ci sono tutti  da Dino de Laurentis a Michelangelo Antonioni (considerato un fotografo); da Brigitte Bardot a Luchino Visconti (visto come uno scenografo). E poi naturalmente Alberto Sordi. Con lui le metafore animali si sprecano («E’ un’entità biologica purissima. E’ un animale selvaggio, un animale del bosco che ci vede anche di notte: una civetta, un falco oppure un cobra»). In sintesi è l’attore che ha l’umiltà di mettersi al servizio del personaggio, ma che, alla fine lo svuota, lo distrugge, ne succhia il midollo e lo abita, rendendolo inevitabilmente «sordiano». Forse è proprio questo aspetto violentemente magico, eppure razionale (Albertone non lascia nulla al caso, con una buona sceneggiatura non improvvisa)  che spiega il sodalizio tra Sordi – attore che «non ha limiti», ma che non legge, non scrive («manco una cartolina») e ha grettezze e avarizie ormai leggendarie  – e Sonego, ex capo partigiano, ottimo pittore, grande sceneggiatore  che vive nella sua ombra (nascosto «sotto il tavolino», secondo la bellissima immagine di Furio Scarpelli).

E che dire di Andreotti, il censore odiato da tutti i cineasti di sinistra italiani? Secondo Sonego alla fine è proprio lui – e anche qui il ritratto è magistrale con un Andreotti che lascia di stucco i dirigenti dell’Istituto dermatologico dell’Immacolata per parlare con lo sceneggiatore  solo di Catherine Spaak – ad aver fatto diventare grande il cinema italiano: «Alla fine ha ucciso 5 film, ma ne ha fatto fare 5.000».

Resta da dire della grande capacità di Tatti Sanguineti di costruire il libro stando anche lui, nonostante usi sempre la prima persona, «sotto il tavolino», facendo parlare Sonego, andando a prendere le sue parole in interviste e libri scritti da altri, andando a caccia dei film a cui Sonego ha preso parte, a volte solo firmando il soggetto o facendo consulenze, con un’acribia che è qualcosa più che filologia, ma è ossessione cinefila e alla fine un atto d’amore per un grande appartato che ha fatto grande il cinema italiano. E’ probabile che Sanguineti abbia una scheda anche per i film che Sonego ha solo sognato. E allora la dedica del libro a Claudio G. Fava (condivisa con il grande sceneggiatore Luciano Vincenzoni, quello della «trilogia del dollaro» di Sergio Leone, per capirsi) nume tutelare dei cinefili liguri e di quelli che hanno cominciato ad amare il cinema grazie alle sue rassegne sui canali della Rai, è l’ennesimo atto d’amore per quell’ossessione che si chiama cinema.

Gazzetta di Parma del 9 agosto 2015