Archivio mensile:Febbraio 2019

Bitcoin, passata la sbornia resta il mal di testa

Solo negli ultimi mesi del 2017, il bitcoin, la criptomoneta più famosa del mondo, sembrava sul punto di diventare l’investimento del secolo, con quotazioni che continuavano ad alzarsi e speculatori di ogni tipo pronti a gettarsi nella mischia per fare quello che sanno fare meglio, cioè separare il denaro dalla massa degli investitori che si lasciano prendere per il naso. C’erano, è vero, anche gli scettici (come chi scrive) che ricordavano la storia delle «bolle» speculative passate, dalla mania dei tuberi dei tulipani in avanti. Sono passati sono una manciata di mesi e di bitcoin – e più in generale di criptomonete – non parla più nessuno. A parte gli «spammer» che ci inondano di email con richieste di un riscatto in bitcoin con la minaccia di divulgare nostre foto intime grazie all’hackeraggio della nostra casella di posta. Insomma: siamo passati dal miraggio dell’Eldorado alla pubblicità delle «scimmie di mare». Forse è il caso di rifare un po’ il punto.

Partiamo da un report di JPMorgan Chase che – come riporta l’Ansa – ci dice che «con il crollo del prezzo degli ultimi mesi produrre bitcoin è diventato più costoso che rivenderli per tutti i trader del mondo tranne quelli cinesi, che possono contare su fonti di energia elettrica a basso costo». «Coniare» – in gergo «fare mining» o «minare» – le criptovalute, infatti, ha dei costi. Il fattore principale che determina la spesa è appunto la bolletta elettrica, perché la tecnologia richiede una grande capacità di calcolo e i server usano grandi quantità di energia. «Nell’ultimo trimestre del 2018 – scrivono gli esperti – la media mondiale del costo per singolo bitcoin si è attestata sui 4mila dollari, mentre attualmente la criptovaluta è scambiata intorno ai 3600 dollari». I cinesi, invece, hanno costi inferiori (circa 2.400 dollari). Se le quotazioni rimarranno vicine a quelle attuali «produrre» bitcoin non sarà più conveniente e molti operatori usciranno dal mercato.

Ma non è finita qui. Il trentenne Gerald Cotten, fondatore di uno dei più grandi siti di scambio di criptovalute, QuadrigaCX, è morto in India due mesi fa portando per sempre con sé le chiavi di accesso alla piattaforma. Di fatto rendendone impossibile l’accesso e mandando in fumo una cifra pari, alle quotazioni attuali, a circa 150 milioni di dollari. Un bel pasticcio – alcuni sospettano che si tratti di una truffa – che ha ulteriormente destabilizzato il mercato delle criptovalute. Una tecnologia promettente, ma immatura.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 18 febbraio

Alitalia, il ritorno dello Stato aviatore

C’era una volta, non tanto tempo fa, lo stato imprenditore. C’erano una volta le grandi aziende di Stato che producevano di tutto: dall’acciao ai panettoni. C’era una volta il Ministero delle Partecipazioni statali che coordinava un sacco di sigle che ora sembrano astruse: Iri, Eni, Egam, Eagc, Efim, Eagat e Eamo. Per non parlare di Enel, Ferrovie dello Stato, Poste, delle banche e della Telecom-Sip. E di Alitalia. Una fetta enorme dell’economia italiana dipendeva da decisioni politiche. 

Poi, sotto il peso del nostro debito pubblico e delle terribili inefficienze economiche di questo sistema, si iniziò a privatizzare. Fu un processo difficile, lungo, con grandi costi sociali e a volte con pessimi risultati. Un esempio su tutti: Telecom. Eppure fu un processo doveroso perché la gestione delle aziende non deve dipendere dalla politica. Pena la nazionalizzazione dei costi delle inefficienze provocate dalla politica.

Con Alitalia, sembra che si voglia tornare indietro e lo Stato (ministero del Tesoro, e Ferrovie) potrebbe superare il 50% del capitale della società con l’aiuto di Cdp. Intendiamoci: con le regole europee l’intervento non potrà essere una semplice nazionalizzazione. Ma l’operazione è giustificata sempre allo stesso modo: la salvaguardia dei livelli occupazionali. Solo che una società non efficiente è destinata a perdere soldi e poi a fallire. O a essere «salvata» per l’ennesima volta. E alla fine il conto lo pagheremo noi cittadini.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 15 febbraio 2019

Facebook, 15 anni tra luci e ombre

Facebook ha appena compiuto 15 anni, visto che fu fondato il 4 febbraio 2004 in un dormitorio di Harvard da Mark Zuckerberg e alcuni compagni. E, come ogni adolescente, sta vivendo un periodo burrascoso.

Vediamo prima le luci che sono tante e molto brillanti, sia dal punto di vista finanziario, sia dal punto di vista della crescita degli utenti. Il colosso di Zuckerberg archivia il quarto trimestre 2018 con un utile netto in aumento a 6,88 miliardi di dollari, o 2,38 dollari per azione, sopra i 2,18 dollari attesi dagli analisti. I ricavi sono saliti del 30% a 16,91 miliardi di dollari, decisamente al di sopra dei 16,39 miliardi su cui scommetteva il mercato. Gli utenti attivi giornalieri, poi, sono stati in media 1,52 miliardi nel dicembre dell’anno scorso, il 9% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Gli utenti mensili sono saliti del 9% a 2,32 miliardi. I ricavi da pubblicità sui dispositivi mobili hanno rappresentato il 93% del totale ricavi. Le piattaforme che Facebook ha acquisito nel corso degli anni (Instagram, WhatsApp e Messenger), infine, fanno faville. Messenger è stata sviluppata «in casa» e lanciata nel 2011, Instagram è stata acquistata nel 2012 per 1 miliardo di dollari e ha raggiunto un miliardo di utenti. WhatsApp è stata invece comperata nel 2014 per 14 miliardi di dollari e ha sforato il tetto del miliardo e mezzo di utenti.

Ora vediamo le ombre che sono tante. Anche se per ora non intaccano, come abbiamo visto, il business di Facebook. Quella più pesante deriva del modello di business stesso del social network per eccellenza che offre un servizio gratuito – e per molti eccellente e prezioso – in cambio di una profilazione ad alzo zero degli utenti. Un numero impressionante di dati che poi vengono utilizzati per «tagliare» al meglio sui gusti dello specifico consumatore la pubblicità. Questa bulimia di dati, a volte conquistati con tecniche molto invasive, è sempre più nell’occhio del ciclone. Per esempio la Gdpr, la normativa europea sulla privacy entrata in vigore a fine maggio 2018 ha dato maggiori protezioni agli «under 16». E proprio questa settimana l’Antitrust tedesco ha deciso che Facebook potrà continuare a raccogliere dati dei propri utenti ricavati da altri siti e app solo con il consenso esplicito degli interessati. Se la raccolta dei dati diventerà più difficile – e più costosa – per Facebook saranno dolori. E l’effetto potrebbe essere più pesante di quello provocato dalla buriana delle Fake News.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma dell’11 febbraio 2019

Apple, la Cina, gli Usa e… una vite

La trimestrale di Apple è andata meglio del previsto anche se per la prima volta da dieci anni la società di Cupertino ha registrato un calo dell’utile e dei ricavi negli ultimi tre mesi dell’anno. Ma nonostante questo Apple ha superato le attese che, dopo il «profit warning» lanciato qualche tempo fa, si erano decisamente abbassate. L’amministratore delegato Tim Cook spiega il calo dei ricavi con il fatto che chi ha un iPhone tende a cambiarlo meno spesso con un modello nuovo fiammante perché, afferma Cook, «disegniamo i nostri prodotti per durare il più a lungo possibile» Paradossalmente, quindi, secondo Cook, è l’estrema qualità dei prodotti Apple che contribuisce alla crisi delle vendite. Del resto è la qualità dei prodotti Apple che consente alla società di venderli a un prezzo molto più alto rispetto alla concorrenza e che garantisce che chi compera un iPhone tenda a rimanere leale alla marca anche nei futuri acquisti.

E questo ci porta al tema di oggi che non è di natura finanziaria, ma più squisitamente industriale. E’ la storia – raccontata dal New York Times – di un prodotto Apple di nicchia, il Mac Pro 2013, un computer bellissimo, molto costoso – tremila dollari di prezzo base – e molto potente pensato per il mercato professionale e di una piccola vite. Apple aveva deciso nel 2012, in piena campagna politica contro le delocalizzazioni, di costruirlo tutto negli Stati Uniti. L’idea era un bel colpo di pubbliche relazioni, ma non era completamente campata in aria. Il prezzo alto del Mac Pro 2013 avrebbe ammortizzato il costo più alto del lavoro negli Stati Uniti e del resto il fatto che si trattasse di un computer da cui ci si aspettava bassi volumi di vendita non avrebbe costretto la società a grandi investimenti industriali.


Ma il diavolo – recita l’antico adagio – si nasconde nel dettaglio. Nella nostra storia il dettaglio è una piccola vite. Non una vite qualsiasi, ma una vite con tolleranze molto strette. Bene, all’epoca non c’era alcuna azienda negli Stati Uniti capace di fornire le viti. L’unica individuata, infatti, riusciva a produrne non più di 1.000 al giorno. Poi se ne trovò una che ne produceva 28.000, ma con tolleranze più ampie. E venivano consegnate a mano dal proprietario. Alla fine Apple fu costretta a far fare le viti in Cina. A quanto pare non è solo una questione di dazi e di lavoro a basso costo, ma anche, e soprattutto, di capacità industriale.

Maduro è un dittatore, ma l’Italia tentenna

Uno degli ultimi successi del governo di Nicolás Maduro è il ritorno in Venezuela della difterite. Lo ricorda uno studio Universidad Central de Venezuela pubblicato da «Lancet Public Health», secondo cui le cause principali del fatto che il tasso di mortalità infantile è tornato ai livelli degli anni ’90, sono la malnutrizione e il collasso del sistema sanitario.

Questo per dire che la crisi politica del Venezuela non è solo un caso di schizofrenia istituzionale, ma anche e soprattutto un problema di sopravvivenza per i venezuelani. La schizofrenia è dovuta al fatto che non solo ci sono due presidenti – Maduro e il presidente del parlamento Juan Guaidó -, ma anche due «parlamenti» visto che all’Assemblea nazionale, controllata dall’opposizione, si contrappone l’Assemblea nazionale costituente, eletta dopo un voto farsa, e che è «madurista» come il Tribunale supremo.

Di fronte a questo groviglio resta però il fatto che il Paese è allo sfascio a causa delle velleitarie politiche del regime. E tutto è aggravato dalle sanzioni imposte al Paese perché Maduro non rispetta i diritti umani. Questa situazione richiede che i Paesi democratici riconoscano Guaidó, il giovane leader dell’opposizione che ha promesso il voto al più presto. Ma il governo italiano tentenna. Anzi i 5 Stelle premono perché si allinei alla posizione «terzista» del Messico e dell’Uruguay. Il tutto in nome di una stantia ideologia terzomondista che chiude gli occhi di fronte a un regime brutale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 29 gennaio