La trimestrale di Apple è andata meglio del previsto anche se per la prima volta da dieci anni la società di Cupertino ha registrato un calo dell’utile e dei ricavi negli ultimi tre mesi dell’anno. Ma nonostante questo Apple ha superato le attese che, dopo il «profit warning» lanciato qualche tempo fa, si erano decisamente abbassate. L’amministratore delegato Tim Cook spiega il calo dei ricavi con il fatto che chi ha un iPhone tende a cambiarlo meno spesso con un modello nuovo fiammante perché, afferma Cook, «disegniamo i nostri prodotti per durare il più a lungo possibile» Paradossalmente, quindi, secondo Cook, è l’estrema qualità dei prodotti Apple che contribuisce alla crisi delle vendite. Del resto è la qualità dei prodotti Apple che consente alla società di venderli a un prezzo molto più alto rispetto alla concorrenza e che garantisce che chi compera un iPhone tenda a rimanere leale alla marca anche nei futuri acquisti.
E questo ci porta al tema di oggi che non è di natura finanziaria, ma più squisitamente industriale. E’ la storia – raccontata dal New York Times – di un prodotto Apple di nicchia, il Mac Pro 2013, un computer bellissimo, molto costoso – tremila dollari di prezzo base – e molto potente pensato per il mercato professionale e di una piccola vite. Apple aveva deciso nel 2012, in piena campagna politica contro le delocalizzazioni, di costruirlo tutto negli Stati Uniti. L’idea era un bel colpo di pubbliche relazioni, ma non era completamente campata in aria. Il prezzo alto del Mac Pro 2013 avrebbe ammortizzato il costo più alto del lavoro negli Stati Uniti e del resto il fatto che si trattasse di un computer da cui ci si aspettava bassi volumi di vendita non avrebbe costretto la società a grandi investimenti industriali.
Ma il diavolo – recita l’antico adagio – si nasconde nel dettaglio. Nella nostra storia il dettaglio è una piccola vite. Non una vite qualsiasi, ma una vite con tolleranze molto strette. Bene, all’epoca non c’era alcuna azienda negli Stati Uniti capace di fornire le viti. L’unica individuata, infatti, riusciva a produrne non più di 1.000 al giorno. Poi se ne trovò una che ne produceva 28.000, ma con tolleranze più ampie. E venivano consegnate a mano dal proprietario. Alla fine Apple fu costretta a far fare le viti in Cina. A quanto pare non è solo una questione di dazi e di lavoro a basso costo, ma anche, e soprattutto, di capacità industriale.