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May, sconfitta devastante. Ma non c’è alternativa alla premier

«There is no alternative», «non c’è alternativa», era uno dei mantra più famosi di Margaret Thatcher, la «lady di ferro» che ha cambiato la Gran Bretagna in modo radicale. Questo mantra era tanto famoso da diventare un acronimo: «TINA». Era la parola finale della Thatcher quando si trattava di stroncare la resistenza dei minatori o se si trattava di sedare le rivolte all’interno del suo rissosissimo partito.

E anche ora – purtroppo – a Londra non ci sono alternative a Theresa May, nonostante la devastante sconfitta a Westminster sull’accordo sulla Brexit: 230 voti di scarto con mezzo partito conservatore che l’ha abbandonata come un cane ad agosto in tangenziale.

Oggi, infatti, con tutta probabilità la mozione di sfiducia presentata dai laburisti verrà bocciata dalla stessa maggioranza che si è sfarinata quando si è trattato di votare a favore di un accordo non perfetto, ma che comunque risolveva il nodo Brexit in modo non troppo pesante. Il fatto è che nessuno ha idea di come uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciata la Gran Bretagna con il referendum. E allora si manda avanti il caporale May che assomiglia sempre più a un fante mandato al massacro sul fronte della Somme. Difficile che, ormai ridotta a uno zombie politico, ottenga qualcosa di più da Bruxelles. intanto il fantasma del «no deal» è sempre più reale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 16 gennaio

Brexit: Londra è (in)decisa a tutto

«Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente». Molti a Londra in questi giorni vorrebbero avere l’ottimismo – o il giudizio accecato dall’ideologia, a volte le due cose si equivalgono – di Mao Zedong, l’autore della celebre massima.

Infatti la confusione – a pochi giorni dal voto sull’accorto trovato dalla premier Theresa May con la Ue, previsto per martedì prossimo – è grande. Anzi enorme. È, infatti, altamente probabile che l’accordo venga bocciato dal Parlamento, visto che non ha convinto nemmeno i conservatori, il partito della May che è diviso – come tutto il Paese – tra fautori della Brexit e invece chi preferirebbe rimanere nell’Unione europea.  Eppure la quasi certezza della bocciatura del piano che potrebbe portare a una disastrosa uscita del Regno Unito dalla Ue senza alcun accordo, pare aver stregato l’intera classe politica bloccata e immobile. Pietrificata dallo sguardo di Medusa. 

C’è chi preferisce un accordo con meno vincoli, c’è chi vuole un patto ancora più stringente, c’è chi chiede più tempo e un secondo negoziato, c’è chi punta a un secondo referendum che annulli il primo e chi, invece, spera nelle elezioni anticipate. Ma nessuno sembra prendere sul serio l’ipotesi di un «no deal», del mancato accordo, che a ogni ora che passa, sembra sempre più spaventosamente reale. Con la recessione mondiale che, secondo tutti gli studi, potrebbe innescare.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 12 gennaio 2019

Il controeditto bulgaro

Correva l’anno 2002 quando l’allora premier, Silvio Berlusconi, da Sofia, chiese alla Rai la testa di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi per il delitto di «uso criminoso della tv». Era il famoso «editto bulgaro». Allora la televisione era il duopolio Rai-Mediaset. Il satellite era di nicchia, internet non esisteva. Carlo Freccero era il talentuoso direttore di Rai2 e Luttazzi era un comico emergente. Sia Freccero che Luttazzi furono epurati.

Freccero lasciò il posto ad Antonio Marano, in quota Lega. Ora Freccero è tornato a dirigere Rai2, grazie a un governo in cui la Lega è parte integrante. La tv è cambiata, i canali sono esplosi, c’è internet e Rai e Mediaset non sono più gli unici gorilla nella foresta. Ma Freccero riparte da Luttazzi, come se fosse il 2002. E toglie spazio a Luca (Bizzarri) e Paolo (Kessisoglu), ottimi comici, forse perché rei di aver fatto un’imitazione di Toninelli. In Italia tutto cambia perché tutto resti come prima.

Corsivo pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 5 gennaio 2019

Per Trump un duro fine anno. Sarà cosi anche il 2019?

Non è un fine anno allegro quello di Donald Trump. Le elezioni di metà mandato sono andate male, anche se non malissimo come pareva solo pochi mesi prima del giorno del voto: il partito del presidente ha mantenuto la maggioranza al Senato, ma la sconfitta alla Camera è stata pesante, anzi pesantissima. E dall’inizio del prossimo anno la Casa Bianca dovrà tenerne conto. In più c’è stata una serie di importanti dimissioni all’interno dell’Amministrazione: se ne sono andati il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, il capo dello staff presidenziale, John Kelly, e il ministro della Difesa, Jim Mattis, questi ultimi due ex generali, celebrati e incensati da Trump all’inizio del loro mandato, ma poi entrati in un insanabile conflitto con il capo della Casa Bianca.

 In più il presidente è nel mirino dell’inchiesta dello «special prosecutor» Robert Mueller che indaga sulle influenze russe sulle elezioni del 2016 ed è criticato all’interno del suo partito per la sua gestione della politica estera – la decisione di abbandonare la Siria al suo destino non è piaciuta a nessuno, almeno a Washington – e per i continui conflitti con la Federal Reserve – con minacce di destituzione per il presidente, Jerome Powell – che fanno fibrillare Wall Street.

 È una posizione difficile anche se l’imprevedibilità di Trump è proverbiale. E quasi sempre i presidenti Usa riescono a conquistare un secondo mandato.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 28 dicembre 2018

Recensione di «L’animale che mi porto dentro» di Francesco Piccolo

Sulla copertina di «L’animale che mi porto dentro», l’ultimo romanzo di Francesco Piccolo (Einaudi, 19,5 euro) campeggia una foto di Mario De Biasi, forse la sua foto più famosa, anche non la più bella, visto se De Biasi è stato uno dei più prolifici e bravi fotografi italiani. Il titolo è «Gli italiani si voltano» e ritrae una giovanissima Moira Orfei che, in un abito bianco molto fasciante, si dirige verso Galleria Vittorio Emanuele a Milano sotto lo sguardo di decine di maschi desiderosi. Correva l’anno 1954. In realtà, però, forse la foto più adatta al contenuto del libro è un’altra, egualmente bella e famosa, ma ancora più cruda nello svelamento delle dinamiche del desiderio maschile dell’Italia degli anni ‘50. Il suo titolo è «American Girl in Italy» ed è ambientata nel 1951 a Firenze: una ragazza passa velocemente su un marciapiede mentre un corridoio di uomini la guarda e commenta. Non è vestita in modo provocante, ma è chiaramente straniera, alta e altera. Oggetto del desiderio di tutti. Uno degli uomini ha le mani in tasca e, è abbastanza evidente, si sta toccando il pene, il «pirellino», direbbe Piccolo che cita Laura Antonelli in «Malizia».  La foto uscì, censurata, su «Cosmopolitan». La modella era Ninalee «Jinx» Allen Craig e la fotografa era Ruth Orkin.

Ecco il nocciolo del libro di Piccolo è tutto qui. Nel rapporto della generazione di maschi italiani nati negli anni ’60 – quella dell’autore e la mia – con i loro padri – quelli delle foto – e, soprattutto, con la propria vita sessuale un po’ modellata su quella della generazione precedente, un po’ modificata dalla rivoluzione sociale che era in corso in quegli anni in Italia. Piccolo è brutale nel descrivere la sessualità del suo personaggio, diviso tra l’«animale» – ipostatizzato nel suo organo sessuale, il «pirellino» o, nei momenti di maggior foga, semplicemente il «cazzo» – e il suo sentimentalismo. E così Francesco – il romanzo è una finta autobiografia – si strugge per la perdita – lui felicemente sposato e con due figli – dell’amante bellissima e con il seno perfetto, ma anche e soprattutto per il fatto che le ha prestato un libro che aveva regalato alla madre nell’infanzia con tanto di dedica.Libro che non rivedrà mai più.

La parte migliore del libro – a parte la filologica ricostruzione dell’immaginario erotico della mia generazione: dalle commedie pecorecce ai fumetti quasi porno di una sessualità soprattutto parlata e quasi mai agita – risiede nelle vicissitudini di questo Nathan Zuckerman adolescente di Caserta che, pieno di desiderio, fatica non poco a raggiungere il suo scopo, cioè «scopare». 

Troppo sentimentale, troppo attento ai vincoli della morale e allo stesso tempo troppo rabbioso, troppo abitato da una fame atavica, in senso proprio e figurato, per essere preso dalla ragnatela romantica che lui stesso ha costruito. Sono questi momenti, scene da una specie di poema cavalleresco provenzale – dove il desiderio è sempre differito – affrontati però con un piglio comico-carnevalesco bachtinianoche fanno ricordare l’opera di Piccolo che alla fine non è altro che l’educazione sentimentale di uno che – come quelli della mia generazione – non andrebbe mai dal parrucchiere, ma semmai dal barbiere. Visto che il parrucchiere è da femmine. E il barbiere da maschi. Una virilità fragilissima e rabbiosa che vive di contrapposizioni e che era dei nostri padri. E della quale, pur odiandola, non si riesce a fare a meno.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 15 dicembre 2018